Il Vangelo da dentro IO, STRANIERO (Lc 6, 27-38) “Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6, 17-19). Così Luca descrive nel suo Vangelo la provenienza della moltitudine di gente presente in quella pianura. Non lo si può certo accusare di discriminazione se non parla di me. Nessuno si accorse della mia presenza tra tutte quelle persone, molte delle quali provenienti dal litorale libanese, perciò stranieri, e io più di loro. Mi presentai in incognito, io, ufficiale romano di stanza a Cesarea sul mare, situata più a sud di Tiro e Sidone e sede del governatore inviato da Roma. Sono sempre stato uno spirito inquieto, in ricerca. Da giovane ho provato ad essere felice vivendo a pieno i piaceri della vita e l’euforia delle vittorie militari. Ma, passato il momento, mi ritrovavo vuoto di cuore e di mente. Più tardi ho inseguito la felicità nella vita regolata dal diritto, di cui a Roma siamo maestri, e nella filosofia dei greci. La mia mente ne ha tratto ricchezza, ma il cuore si è mantenuto nella sua aridità. Una felicità a metà. Durante una mia lunga permanenza a Roma sono venuto a contatto con la cultura e la religione degli ebrei, che vivono nel loro bel quartiere sulle sponde del Tevere, e con alcuni di loro ho stretto una sincera amicizia. Mi ha affascinato il loro libro sacro, la Bibbia. Ho letto e riletto le sue pagine. Mi piace questo loro Dio, addirittura unico, senza un olimpo di dei al suo fianco, che sceglie un popolo tra i più piccoli del tempo per farne il suo popolo, in favore del quale interviene sempre con misericordia, malgrado le loro ribellioni, la loro testardaggine e il cuore indurito. Sentivo però che mi mancava ancora qualcosa. E così, quando si è presentata l’occasione di poter venire a prestare servizio in Palestina, l’ho presa al volo, senza pensarci su due volte. Avevo desiderio e necessità di conoscere più da vicino questa gente e la loro religione. Non me ne sono pentito; non ho trovato ancora però quel senso pieno di vita che vado cercando da sempre. Mi manca comunque qualcosa; il che mi rimette continuamente in cammino, pellegrino sui sentieri che conducono alla pace e alla felicità. Come mai sono arrivato fin là, a quella pianura della Galilea? Mi ci ha portato la curiosità di voler conoscere Gesù di Nazareth, maestro del quale si parlava diffusamente da qualche tempo a questa parte, la cui fama aveva valicato i confini della regione e della nazione. Chissà che non avesse qualcosa da dire alla mia ricerca. Ho cercato il suo villaggio di provenienza sulle carte geografiche, ma non l’ho trovato. Mi hanno riferito che è talmente piccolo e insignificante che hanno ritenuto di non riportarlo sulle mappe della Galilea. Eppure questo maestro, celebrato da tutti, vi aveva passato trenta anni della sua vita, nascosto come il suo villaggio, fuori da coordinate di riferimento, prima di iniziare a predicare pubblicamente la vicinanza del Regno di Dio e la conversione. Insomma, ero venuto per ascoltarlo, come molti. Tanti altri si capiva che erano lì per mettergli davanti i propri guai fisici o spirituali, confidando nelle sue capacità di guarigione e salvezza. Gesù, sceso dal monte, prese allora la parola, annunciando di voler parlare dell’essere felici. Parve avermi letto nel pensiero. Mi aspettavo un bel trattato sulla felicità, alla maniera dei miei amati filosofi; invece ha sconvolto l’uditorio dichiarando beate alcune categorie di persone che noi avremmo definito minimo “sfortunate”: i poveri, chi ha fame, chi piange e chi è perseguitato a causa del suo nome. Perché? Non per una condizione di vita che è dovere di tutti aiutare a superare; ma per la loro necessità di doversi aprire alla relazione, con Dio e con i fratelli, trovandosi nella condizione di non bastare a sé stessi, e quindi di non correre il pericolo della autoreferenzialità escludente e discriminante, che, al contrario, porta pericoli e guai per tutti. Sono infatti le relazioni che odorano di vera spiritualità e umanità a renderci felici. È poi passato a parlare di amore, raggiungendo vette a prima vista impossibili da scalare. Amare addirittura i nemici… Rispondere al male con il bene… Essere misericordiosi alla misura di Dio, non tanto “come”, ma “con” Lui e “perché” Lui lo è con noi (un dio così non esiste nell’olimpo dei nostri dei…). Concetti straordinariamente affascinanti, ma pericolosi per la politica e gli equilibri internazionali dell’Impero Romano, che vedrebbe certamente la fine se si affermassero. E infatti si è cercato di inchiodarli con lui su una croce, non riuscendo però a farli morire con lui. Personalmente il nemico ho imparato a rispettarlo, ma amarlo è troppo!! Eppure, sento che sarebbe giusto e bello se fossimo capaci di tanto, e che il mondo sarebbe senz’altro più vivibile se aperto al bene gratuito e disinteressato. Sono tornato a Cesarea, affascinato e sconvolto da quella esperienza e da quelle parole. Fascino e turbamento che mi sono portato dietro come bagaglio prezioso, pur nella consapevolezza della difficoltà a vivere secondo quei criteri. Più di ogni altra cosa, mi ha sempre accompagnato l’incontro con Gesù. A un certo punto ho incrociato il suo sguardo, e mi è parso che lui stesse cercando il mio, in mezzo alla gran folla che lo circondava. Occhi che brillavano di quell’amore e quella misericordia che stava proponendo a tutti. Non ho più incontrato un maestro altrettanto credibile, nel quale si identificassero messaggio e testimonianza di vita, parole e amore incarnato. Tuttavia, il ricordo di quella esperienza e di quello sguardo non hanno mai smesso di accompagnarmi e di darmi il coraggio di andare avanti nella mia personale ricerca di una vita migliore e di un tempo più pieno. fra Matteo
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